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SPECIALE SU ISCHIA


Amori e splendori della ferrea cittadella

di Giovanni Di Meglio

Il Castello Aragonese, che fu uno dei più belli del Mediterraneo, ha accompagnato l'isola nella sua storia travagliata. Ora torna a far rivivere i suoi spazi e le sue memorie.

Quando nel giugno del 1809 il comandante della flotta anglo-borbonica Stewart diede ordine di bombardare dalla baia di Cartaromana il Castello d'<%=ischia%>, la piccola isola, occupata militarmente dalle truppe francesi di Gioacchino Murat, non immaginava di aver inferto il colpo di grazia alla inarrestabile decadenza della cittadella fortificata.
Le conseguenze del conflitto furono disastrose. L'intero borgo medioevale, racchiuso tra le mura elevate quattro secoli prima da Alfonso d'Aragona e insignito da Don Federico - ultimo re di quella dinastia - del pomposo titolo di "Città di eterna fedeltà", in pochi giorni fu cancellato dalla storia. La cattedrale di epoca angioina andò completamente distrutta e i resti degli antichi monumenti, raccolti dai pietosi canonici, furono ricomposti in altre chiese isolane. Il vescovo considerò più comodo sistemarsi nella residenza settecentesca del sottostante Borgo Marinaro, dove pure le sedi delle restanti istituzioni religiose e civili trovarono ospitalità nei palazzi nobiliari.
Solo la guarnigione militare non abbandonò la caserma nel Maschio in vetta alla cittadella; vi rimase ancora qualche decennio, per poi far posto al carcere borbonico di massima sicurezza per detenuti politici. Eppure quell'isolotto, definito "minore" per contrapporlo all'isola "maggiore" di <%=ischia%>, era stato custode per oltre due millenni delle vicende locali.
Benché una consolidata tradizione sostenga che il primo insediamento abitativo sullo "Scoglio", come affettuosamente gli ischitani chiamano il Castello, sia dovuto nel V sec. a.C. al tiranno Gerone di Siracusa, che ottenne l'isola dai cumani in cambio dell'aiuto prestato contro gli etruschi, soltanto a partire dall'alto Medioevo si hanno notizie storicamente accertate.
Papa Gregorio Magno lo citò col nome di "Castrum Gironis", cioè fortezza militare di forma circolare o a girone (niente, quindi, a che fare con Gerone); due secoli dopo, Leone III lo raccomandò a Carlo Magno per proteggerlo dagli attacchi dei Mauri, pirati di origine araba; i normanni e gli svevi ne fecero il baluardo militare a difesa del golfo di Napoli.
Ai re angioini (Carlo II e soprattutto Roberto) si deve il vero potenziamento del Castello che, a quell'epoca, fu visitato dal Petrarca e dal Boccaccio. Quest'ultimo, colpito dalla bellezza dei luoghi, ambientò tra la baia di Cartaromana e la fortezza la sesta novella del quinto giorno del Decamerone, la delicata storia d'amore tra la giovane Restituta Bulgari e Giovanni da Procida, nipote del più popolare eroe dei Vespri Siciliani.

Anche se il Castello visse momenti di gloria con l'elezione a papa - con il nome di Giovanni XXIII - di Baldassarre Cossa, figlio del governatore militare Giovanni e deposto come antipapa dal concilio di Costanza, fu con Alfonso d'Aragona, nella prima metà del Quattrocento, che si elevò al rango di città-fortezza, tanto da essere denominato il castello "Aragonese" per eccellenza, discreto luogo di delizie nei momenti di pace, inespugnabile bastione militare in tempo di guerra.
Tra le mura del Maschio, completamente ristrutturato ed ampliato a imitazione di quanto già realizzato a Napoli, il maturo re Alfonso visse gorni di intimità con l'amante Lucrezia d'Alagni, la giovane e bella torrese che tutti a Napoli onoravano come regina, sebbene la vera regina se ne restasse in volontario esilio a Barcellona. In attesa di poterla sposare, Alfonso le donò in pegno d'amore il feudo d'<%=ischia%>. Quelle stesse mura protettive accolsero i fuggitivi Ferdinando II e Don Federico, gli ultimi re aragonesi, allorché Carlo VIII re di Francia, prima, e lo spagnolo Ferdinando il Cattolico, poi, a distanza di pochi anni l'uno dall'altro, decisero di impadronirsi del regno di Napoli. Il successo arrise al secondo. E da allora il regno ritenuto il più bello del Mediterraneo fu declassato a vicereame.
Non così avvenne per il Castello Aragonese, che anzi visse in quegli anni i fasti della presenza contemporanea di due nobilissimi e potentissimi casati: i Colonna e i d'Avalos. L'unione tra le famiglie fu suggellata dal matrimonio della diciassettenne Vittoria Colonna con Ferrante d'Avalos, celebrato proprio nella cattedrale sul Castello il 27 dicembre 1509, con un lusso di chiara ispirazione iberica, alla presenza dei membri della corte aragonese che non avevano ritenuto di dover lasciare il regno, con il beneplacito della governatrice Costanza d'Altavilla, colei che per le doti militari fu detta dai cronisti contemporanei la nuova "Giovanna d'Arco", la stessa che Benedetto Croce suppose fosse stata ritratta da Leonardo, forse nel più celebre dipinto del mondo. Che Monna Lisa sia il ritratto di Costanza resta una ipotesi affascinante a tutt'oggi ancora da verificare.

È certo, invece, che Vittoria Colonna istituì sul Castello Aragonese, da lei cantato in diversi sonetti, un importante cenacolo letterario, frequentato da poeti insigni, per primi Sanazzaro e Cariteo, cui si aggiunsero nel corso di un ventennio Galeazzo di Tarsia, Anysio, Paolo Giovio, Marcantonio Minturno, Flaminio, Bernardo Tasso (padre del più celebre Torquato), Luigi Tansillo, Berardino Rota. A lei toccò l'alto onore di ricevere nel proprio appartamento sul Castello l'imperatore Carlo V.
Il respiro europeo - se così si può dire - del cenacolo è testimoniato dal fitto epistolario che Vittoria intrattenne con gli uomini più importanti dell'epoca, dal duca di Mantova, che le inviò la Maddalena del Tiziano, a Michelangelo, che le donò il disegno di Cristo in croce tra i due ladroni, da Pietro Aretino a Ludovico Ariosto, da Baldassarre Castiglione a Pietro Bembo, dal cardinale Reginaldo Polo a papa Clemente VII, per citarne solo alcuni.

Peraltro, il Cinquecento fu il periodo di massimo splendore per il Castello, organizzato come una cittadella-fortezza in scala ridotta, con tanto di ponte levatoio, possenti mura perimetrali a ridosso delle pareti rocciose, un raffinato sistema difensivo, una rete di raccolta delle acque piovane, il Maschio per le truppe e la residenza del governatore militare, l'episcopio, la sede del parlamento cittadino, palazzi patrizi, ben dieci chiese, di cui la cattedrale con la cripta delle famiglie illustri e tre parrocchie; vi erano perfino due conventi, quello dei monaci greci di San Basilio e quello di clausura delle clarisse, fondato dalla nobildonna Beatrice della Quadra, vedova di Muzio d'Avalos, per ospitarvi le fanciulle di alto lignaggio, destinate a prendere il velo per non disperdere il patrimonio familiare: povere creature costrette a rimanere rinchiuse nel convento anche da morte, essendo in vigore l'usanza di far "scolare" i loro cadaveri su catafalchi in muratura nel cimitero sotto la loro chiesa, che ancora oggi è possibile visitare.
Poi il lento ed inesorabile declino, il costante spopolamento del borgo dovuto alla necessità di trovare nuovi spazi di espansione urbanistica, al diminuito rischio di incursioni saracene, all'esigenza di trovarsi a più stretto contatto con il luogo di lavoro. Solo le sedi istituzionali vi rimasero ancora, completamente staccate dal contesto socio-economico, finché la flotta anglo-borbonica del comandante Stewart provvide a sfrattare anche quelle.
Adibito a carcere politico dai Borbone dopo i moti insurrezionali e risorgimentali del 1848, il Castello ospitò il fior fiore dell'intellighenzia meridionale favorevale all'unità d'Italia; Carlo Poerio, Filippo Agresti, Silvio Spaventa, Nicola Nisco, Michele Pironti, Gaetano Errichiello, Vito Purcaro e tanti altri generosi patrioti furono rinchiusi in celle buie, dove la sporcizia e la promiscuità erano la regola. Per ironia della sorte, quelle stesse celle, prima di essere del tutto abolite, ospitarono i soldati borbonici che si erano opposti a Gaeta all'esercito piemontese.

Il degrado che seguì alla chiusura del carcere costrinse il Demanio Militare, cui apparteneva la proprietà, a vendere agli inizi del Novecento il Castello a privati in due lotti distinti, per i fabbricati ancora in piedi, sebbene gravemente pericolanti, e per i fondi ritenuti di natura agricola. La scelta si dimostrò provvida, perché da allora i proprietari hanno recuperato e rivalutato gli spazi architettonici ancora esistenti, ospitando negli anni più recenti mostre artistiche di richiamo internazionale, come quelle dedicate a Manzù, a Morandi e ad altri maestri contemporanei.

Giovanni Di Meglio, pubblicista


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